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LE FORTIFICAZIONI DI FONTANEDO
Alle pendici del monte Legnone, a circa m. 500 s.l.m. nella località Fontanedo di Villatico sorgono i resti di un complesso fortificato detto impropriamente “Torre di Fontanedo”. Nella realtà non si tratta solamente di una torre, ma di una imponente fortificazione costruita forse nel XIV secolo e divenuta in seguito opera accessoria nel punto più sopraelevato del sistema difensivo del forte di Fuentes. Infatti il torrione è circondato di un’ampia cinta di mura con due portali d’ingresso opposti e da edifici di supporto logistico, ora adibiti a uso agricolo.
Nell’ambito strategico generale del Forte di Fuentes, ma forse anche prima, la fortificazione di Fontanedo svolgeva il compito di controllo e blocco dell’antica strada a mezza costa del monte Legnone che collegava la Val Varrone alla Valtellina. La tipologia delle murature conferma la datazione secentesca del manufatto, ma l’impianto planimetrico, alcuni particolari architettonici e il posizionamento geografico del complesso ne porterebbero la prima origine attorno al secolo XII. Ragguardevole doveva essere la forza che presidiava in epoca spagnola la “Torre di Fontanedo” a giudicare dalle dimensioni degli fabbricati per l’alloggiamento delle truppe, dai magazzini e dalle stalle. Mentre la sua importanza anche come immagine è dimostrata dalla palazzina alloggio per il comandante. |
All’interno del recinto delle mura si trova pure la cappella, prerogativa che gli spagnoli riservavano a fortificazioni di riguardo.
Secondo notizie riferite dai locali, sarebbero stati trovati nel terreno frammenti di lastre di marmi provenienti dalla cappella stessa che denotavano una certa aulicità della costruzione.
La torre domina il complesso e ha una piana pressoché quadrata di m. 7.50 per lato e un’altezza allo stato attuale di m. 15. lo spessore della muraglia di base è di m. 1,20. Certamente essa apparteneva all’antica segnaletica del Lario dovette e di essa sono giunti sino a noi imponenti ruderi di opere. Secondo il Pensa la costruzione è legata ai Visconti nel 1357. Egli non esclude, anzi ritiene probabile che già preesistesse una torre, che poteva trasmettere segnali alla celebre torre d’Olonio.
Epoca
Si deve escludere una origine in età spagnola e mantenere pure forti dubbi che sia entrata nel sistema difensivo dell’epoca. Un abitato sepolto fra gli oscuri boschi di una selvatica vallata, architetture genuine che vengono dalla roccia cui sono abbarbicate, nel colore stesso sanguigno della terra.
Secondo le cronache di Antonio Maria Stampa, la costruzione risalirebbe a circa il 1357, quando Bernabò Visconti, usurpata la parte del territorio del defunto Matteo, avrebbe commesso ai gravedonesi di “fortificare in Colico il Monteggio, e il passo di Fontanedo con torri ed altre fortezze” per ovviare le scorrerie di valtellinesi e locarnesi su Colico. In quel tempo però il territorio pare fosse di pertinenza di Galeazzo e non di Bernabò, benché entrambi dovessero fronteggiare il partito guelfo, prodottisi in diversi scontri anche entro i borghi della Riviera, e l’alleanza fra i Savoia, i Carraresi e Venezia.
Come passo, la località di Fontanedo, più all’interno sulla valle del torrente Inganna rispetto al colle della torre, si dislocò lungo un percorso che poteva raggiungere fra i monti Piantedo oppure salire ai pascoli delle Formiche e dello Scoggione. La pista poteva proseguire verso i monti di Dorio, sia verso Agogno, fra il Legnoncino e il Legnone, dove l’Arrigoni segnalava un’altra torre ora scomparsa. Inoltre poteva costituire un punto di segnalazione in linea con le fortezze di Riva di Mezzola, di Brignano e di Musso. Una posizione quindi piuttosto interessante per il controllo dei territori montani e di confine.
Ma Fontanedo con la chiesa di S. Croce è citato solo nel 1593 dal vescovo Niguarda come una delle quattro squadre di Colico. È curioso però che nella carta della parte alpestre del ducato, redatta negli ultimi anni del secolo, ma pubblicata nel 1620 dal Magini Junior, prossimo a San Bernardino (Villatico) compaia spesso il fiume Fontana, che è certo Fontanedo.
Nella mappa del catasto del 1722 vi è l’abitazione di Fontanè, poco distante dalla chiesa, cui segue la Sponda con vari edifici; il recinto del “castello”, in forma trapezoidale, era selva ad uso di casotto, cioè uno spazio di oltre 2 pertiche dove sorgevano cascinette, diviso in 12 porzioni che corrispondono all’incirca a quelle della mappa del 1860; le proprietà nel Settecento erano dei Rizzo, Bonacina, Curti, Betti e Memè, ma la più parte toccava al comune di Colico, alla parrocchia di san Bernardino e all’arcipretura di Gravedona, cui erano di pertinenza diverse selve alla Sponda.
In sostanza, pur senza indicazione della torre, nel Settecento esisteva di certo quel gruppo di fabbricati rustici costituenti il compendio intorno alla fortezza, certo di diritto comunale.
Tenendo conto della consistente presenza intorno a Fontanedo di beni delle chiese di Gravedona, di Piona, di Villatico e del Comune stesso di Colico, pare fondata l’idea che quell’area fosse sostanzialmente di carattere pubblico, prima delle alienazioni proseguite nei secoli.
La torre sembra solo perno di un insieme incasellato, che procede su più ripiani verso il lago, con probabili successivi ampliamenti, avvicinabili a quelli riscontrati per il castello di Bellaguardia presso Tovo Sant’Agata.
Intorno al 1838 dunque la torre era piuttosto integra come altre costruzioni del colle; invece i rilievi del 1860 e le tavole catastali del 1875 segnalano sui due pianori della torre sette case diroccate, oltre a tre stalle con fienile, un lungo terreno e una sola colonica di Giuseppe Antonio Vanoni. La torre apparteneva al comune, mentre l’ampio spazio laterale e antistante era concesso a livello a Giorgio Fallini dalla chiesa di Villatico, probabile derivazione dei diritti ecclesiastici rilevati nel Settecento; alla cappella odierna corrispondeva una stalla con fienile dei Mazzina. Pur nelle difficoltà di confronto fra mappe, si rileva che il pianoro superiore era di fatto pubblico e circa della stessa entità dei beni comunali ed ecclesiastici segnati nel settecento.
La torre e il portone
Sul colle piuttosto aspro e dirupato verso l’Inganna, a 550 m. di altitudine sorge su uno sperone roccioso e precipite verso Nord la grande torre, alta circa 18 metri e a piante rettangolare di m. 6 per 7,40, disposta con il lato maggiore e l’antico accesso sopraelevato verso il pianoro dell’abitato e verso il lago. Essa domina l’Inganna dalla parte sud, Colico e il lago a nord.
Ciò indica il riferimento a Colico e una funzione di controllo sulla conca, mentre sul lato opposto si aprono feritoie strombate abbastanza ampie, che insieme alla nuda parte nord sembrano opporsi ad attacchi dalla Valtellina e Valsassina.
Anche l’arco del passaggio del viottolo mostra la chiusura verso il monte. Questa porta slegata dai resti del fabbricato contermine alla torre verso sud, pare invece la continuazione di un recinto antistante la torre, circa m. 14 per 10, ed ha caratteri certamente antichi individuabili sotto i rimaneggiamenti. È formata da un arco a piccoli conci disposti a coltello e da un vano ribassato, con luce di m. 2,20 e altezza m. 2,36, chiudeva il viottolo della strada comunale da Robustello alla torre. Ancora si vedono gli incavi per le travi di sbarramento del portone.
Questo pianoro superiore, delimitato ad ovest da un salto roccioso sovrastante un alto pianoro, vede anche resti di fabbricati appoggiati alla torre e con carattere arcaico. Essi potevano costituire il primo nucleo castellano, corrispondente alle muraglie di notevole altezza e con feritoie ancora presenti all’inizio del Novecento.
La possente torre, lievemente rastremata e restaurata con integrazioni in cotto, ha muraglie spesse m. 1,22 formate da file irregolari di pietre allungate e di varie dimensioni, in scisto rossastro con inserti di serizzo e di calcite, appena sbozzate nei cantonali. Il letto di malta è abbastanza consistente e composto di calce e abbondante ghiaietto. Tutte le murature, comprese quelle della torre, sono eseguite con pietrame locale anche composto di sfaldoni e solo raramente sbozzato. Lo strato di legame è povero, tanto che i muri delle strutture più basse sembrerebbero realizzate a secco per il lavaggio degli agenti atmosferici sulla poca malta usata.
La torre ha subito recentemente un intervento di consolidamento statico. La parte inferiore giunge all’ingresso sopraelevato dove si impostava il primo pavimento, cui seguivano diversi piani di impalcai segnati da una serie di buche pontate.
Il manufatto è massiccio e con rade aperture. Su ogni lato si apre in alto una finestrella trilitico, ad est e a sud stanno diverse feritoie e finestrelle a strombo piano. Nella faccia verso il lago si vede non in asse a circa 3,20 dal suolo quella che era la vera porta, accessibile con scala retrattile.
La tessitura muraria ha somiglianze con il recinto più antico del castello di Corenno, che appare piuttosto arcaico e comunque di un secolo precedente la ricostruzione trecentesca. Però il trattamento dei corsi di pietrame, come pure l’effetto complessivo dell’impianto, sembra apparentarsi alle torri del castello di Dervio, di età comunale. Questo sembrerebbe orientare verso la prima metà del secolo XIII.
Interessante il riscontro di alcune coppelle sulle rocce davanti alla torre, simile a quanto si osserva ai Montecchi di Colico e in tutta questa area montana.
La chiesetta
All’interno della porta d’ingresso, lungo la viottola principale, si erga sulla muratura verso sud una santella, donde fu tratto l’affresco della vergine con bambino, collocato oggi nella chiesa di Curcio. Attribuito al tardo Trecento o al Quattrocento, pare invece un lavoro d’inizio cinquecento, ancorato alla tradizione tardogotica, in semplice ma accurata fattura. Ma questa santella venne realizzata solo nel 1739, e forma parte di un edificio dirupo ben più vasto, diventato stalla nell’Ottocento. Ai lati infatti corrono verso il torrente Inganna le mura perimetrali di un ambiente alto circa m. 4,50. esso è rivolto verso sud-est e mostra non solo due contrafforti a lato della santella. Ma pure resti di fondazioni verso il sentiero interno.
Si potrebbe dunque ipotizzare una chiesetta di circa m. 4 per 7,50, che forse conteneva l’affresco, poi staccato a massello, come in uso nel Settecento, e ricollocato in modo accessibile alla vista data la rovina della cappella.
Il pianoro delle cascine
Il salto delle rocce, non presente però nello spazio verso il ciglione del torrente dove passa la strabella, configura un pianoro inferiore di circa m. 28 per 70, allungato con una porzione prativa, recintato verso nord ed ovest, lambito a sud dal viottolo sul ciglione e suddiviso in due porzioni da un muro. Intorno si dislocano cosucce, cascinette in rovina, fienili con le scalette esterne in pietra, case coloniche in parte ripristinate, qualche vicolo, resti di pavimentazione coprono l’ingresso che procede da una franata muraglia – che corre a nord fino alla torre – e si rintracciano anche nel primo vasto spazio fiancheggiato da un castagneto, come se vi esistesse un’aia comunitaria. I resti sono alzati in pietrame locale con sapienti archi di ingesso, rare finestrelle, soffitti piani di legno; vi sono percolati e panchette di sosta.
La cascina prospiciente l’orlo del recinto verso sud-ovest ha due bei archi gemini: sembrerebbe questa una costruzione a modo di torre che appare nella litografia del Deroy e che era nell’Ottocento una stalla della famiglia Dego. Non si rintracciano chiari elementi per individuare alloggiamenti militari, né palazzine di comando, di epoca spagnola, anche se con una certa probabilità l’edifico anzi indicato, oltre che quelli laterali alla torre, possono aver assunto un tempo funzioni ora non percepibili.
Se si tiene conto dell’estratto di mappa di quel tempo, si possono rilevare interventi successivi di ripristino o di ampliamento di qualche caseggiato, ancora integro e dalle modalità tipiche del tardo ottocento. [Borghi]
Secondo notizie riferite dai locali, sarebbero stati trovati nel terreno frammenti di lastre di marmi provenienti dalla cappella stessa che denotavano una certa aulicità della costruzione.
La torre domina il complesso e ha una piana pressoché quadrata di m. 7.50 per lato e un’altezza allo stato attuale di m. 15. lo spessore della muraglia di base è di m. 1,20. Certamente essa apparteneva all’antica segnaletica del Lario dovette e di essa sono giunti sino a noi imponenti ruderi di opere. Secondo il Pensa la costruzione è legata ai Visconti nel 1357. Egli non esclude, anzi ritiene probabile che già preesistesse una torre, che poteva trasmettere segnali alla celebre torre d’Olonio.
Epoca
Si deve escludere una origine in età spagnola e mantenere pure forti dubbi che sia entrata nel sistema difensivo dell’epoca. Un abitato sepolto fra gli oscuri boschi di una selvatica vallata, architetture genuine che vengono dalla roccia cui sono abbarbicate, nel colore stesso sanguigno della terra.
Secondo le cronache di Antonio Maria Stampa, la costruzione risalirebbe a circa il 1357, quando Bernabò Visconti, usurpata la parte del territorio del defunto Matteo, avrebbe commesso ai gravedonesi di “fortificare in Colico il Monteggio, e il passo di Fontanedo con torri ed altre fortezze” per ovviare le scorrerie di valtellinesi e locarnesi su Colico. In quel tempo però il territorio pare fosse di pertinenza di Galeazzo e non di Bernabò, benché entrambi dovessero fronteggiare il partito guelfo, prodottisi in diversi scontri anche entro i borghi della Riviera, e l’alleanza fra i Savoia, i Carraresi e Venezia.
Come passo, la località di Fontanedo, più all’interno sulla valle del torrente Inganna rispetto al colle della torre, si dislocò lungo un percorso che poteva raggiungere fra i monti Piantedo oppure salire ai pascoli delle Formiche e dello Scoggione. La pista poteva proseguire verso i monti di Dorio, sia verso Agogno, fra il Legnoncino e il Legnone, dove l’Arrigoni segnalava un’altra torre ora scomparsa. Inoltre poteva costituire un punto di segnalazione in linea con le fortezze di Riva di Mezzola, di Brignano e di Musso. Una posizione quindi piuttosto interessante per il controllo dei territori montani e di confine.
Ma Fontanedo con la chiesa di S. Croce è citato solo nel 1593 dal vescovo Niguarda come una delle quattro squadre di Colico. È curioso però che nella carta della parte alpestre del ducato, redatta negli ultimi anni del secolo, ma pubblicata nel 1620 dal Magini Junior, prossimo a San Bernardino (Villatico) compaia spesso il fiume Fontana, che è certo Fontanedo.
Nella mappa del catasto del 1722 vi è l’abitazione di Fontanè, poco distante dalla chiesa, cui segue la Sponda con vari edifici; il recinto del “castello”, in forma trapezoidale, era selva ad uso di casotto, cioè uno spazio di oltre 2 pertiche dove sorgevano cascinette, diviso in 12 porzioni che corrispondono all’incirca a quelle della mappa del 1860; le proprietà nel Settecento erano dei Rizzo, Bonacina, Curti, Betti e Memè, ma la più parte toccava al comune di Colico, alla parrocchia di san Bernardino e all’arcipretura di Gravedona, cui erano di pertinenza diverse selve alla Sponda.
In sostanza, pur senza indicazione della torre, nel Settecento esisteva di certo quel gruppo di fabbricati rustici costituenti il compendio intorno alla fortezza, certo di diritto comunale.
Tenendo conto della consistente presenza intorno a Fontanedo di beni delle chiese di Gravedona, di Piona, di Villatico e del Comune stesso di Colico, pare fondata l’idea che quell’area fosse sostanzialmente di carattere pubblico, prima delle alienazioni proseguite nei secoli.
La torre sembra solo perno di un insieme incasellato, che procede su più ripiani verso il lago, con probabili successivi ampliamenti, avvicinabili a quelli riscontrati per il castello di Bellaguardia presso Tovo Sant’Agata.
Intorno al 1838 dunque la torre era piuttosto integra come altre costruzioni del colle; invece i rilievi del 1860 e le tavole catastali del 1875 segnalano sui due pianori della torre sette case diroccate, oltre a tre stalle con fienile, un lungo terreno e una sola colonica di Giuseppe Antonio Vanoni. La torre apparteneva al comune, mentre l’ampio spazio laterale e antistante era concesso a livello a Giorgio Fallini dalla chiesa di Villatico, probabile derivazione dei diritti ecclesiastici rilevati nel Settecento; alla cappella odierna corrispondeva una stalla con fienile dei Mazzina. Pur nelle difficoltà di confronto fra mappe, si rileva che il pianoro superiore era di fatto pubblico e circa della stessa entità dei beni comunali ed ecclesiastici segnati nel settecento.
La torre e il portone
Sul colle piuttosto aspro e dirupato verso l’Inganna, a 550 m. di altitudine sorge su uno sperone roccioso e precipite verso Nord la grande torre, alta circa 18 metri e a piante rettangolare di m. 6 per 7,40, disposta con il lato maggiore e l’antico accesso sopraelevato verso il pianoro dell’abitato e verso il lago. Essa domina l’Inganna dalla parte sud, Colico e il lago a nord.
Ciò indica il riferimento a Colico e una funzione di controllo sulla conca, mentre sul lato opposto si aprono feritoie strombate abbastanza ampie, che insieme alla nuda parte nord sembrano opporsi ad attacchi dalla Valtellina e Valsassina.
Anche l’arco del passaggio del viottolo mostra la chiusura verso il monte. Questa porta slegata dai resti del fabbricato contermine alla torre verso sud, pare invece la continuazione di un recinto antistante la torre, circa m. 14 per 10, ed ha caratteri certamente antichi individuabili sotto i rimaneggiamenti. È formata da un arco a piccoli conci disposti a coltello e da un vano ribassato, con luce di m. 2,20 e altezza m. 2,36, chiudeva il viottolo della strada comunale da Robustello alla torre. Ancora si vedono gli incavi per le travi di sbarramento del portone.
Questo pianoro superiore, delimitato ad ovest da un salto roccioso sovrastante un alto pianoro, vede anche resti di fabbricati appoggiati alla torre e con carattere arcaico. Essi potevano costituire il primo nucleo castellano, corrispondente alle muraglie di notevole altezza e con feritoie ancora presenti all’inizio del Novecento.
La possente torre, lievemente rastremata e restaurata con integrazioni in cotto, ha muraglie spesse m. 1,22 formate da file irregolari di pietre allungate e di varie dimensioni, in scisto rossastro con inserti di serizzo e di calcite, appena sbozzate nei cantonali. Il letto di malta è abbastanza consistente e composto di calce e abbondante ghiaietto. Tutte le murature, comprese quelle della torre, sono eseguite con pietrame locale anche composto di sfaldoni e solo raramente sbozzato. Lo strato di legame è povero, tanto che i muri delle strutture più basse sembrerebbero realizzate a secco per il lavaggio degli agenti atmosferici sulla poca malta usata.
La torre ha subito recentemente un intervento di consolidamento statico. La parte inferiore giunge all’ingresso sopraelevato dove si impostava il primo pavimento, cui seguivano diversi piani di impalcai segnati da una serie di buche pontate.
Il manufatto è massiccio e con rade aperture. Su ogni lato si apre in alto una finestrella trilitico, ad est e a sud stanno diverse feritoie e finestrelle a strombo piano. Nella faccia verso il lago si vede non in asse a circa 3,20 dal suolo quella che era la vera porta, accessibile con scala retrattile.
La tessitura muraria ha somiglianze con il recinto più antico del castello di Corenno, che appare piuttosto arcaico e comunque di un secolo precedente la ricostruzione trecentesca. Però il trattamento dei corsi di pietrame, come pure l’effetto complessivo dell’impianto, sembra apparentarsi alle torri del castello di Dervio, di età comunale. Questo sembrerebbe orientare verso la prima metà del secolo XIII.
Interessante il riscontro di alcune coppelle sulle rocce davanti alla torre, simile a quanto si osserva ai Montecchi di Colico e in tutta questa area montana.
La chiesetta
All’interno della porta d’ingresso, lungo la viottola principale, si erga sulla muratura verso sud una santella, donde fu tratto l’affresco della vergine con bambino, collocato oggi nella chiesa di Curcio. Attribuito al tardo Trecento o al Quattrocento, pare invece un lavoro d’inizio cinquecento, ancorato alla tradizione tardogotica, in semplice ma accurata fattura. Ma questa santella venne realizzata solo nel 1739, e forma parte di un edificio dirupo ben più vasto, diventato stalla nell’Ottocento. Ai lati infatti corrono verso il torrente Inganna le mura perimetrali di un ambiente alto circa m. 4,50. esso è rivolto verso sud-est e mostra non solo due contrafforti a lato della santella. Ma pure resti di fondazioni verso il sentiero interno.
Si potrebbe dunque ipotizzare una chiesetta di circa m. 4 per 7,50, che forse conteneva l’affresco, poi staccato a massello, come in uso nel Settecento, e ricollocato in modo accessibile alla vista data la rovina della cappella.
Il pianoro delle cascine
Il salto delle rocce, non presente però nello spazio verso il ciglione del torrente dove passa la strabella, configura un pianoro inferiore di circa m. 28 per 70, allungato con una porzione prativa, recintato verso nord ed ovest, lambito a sud dal viottolo sul ciglione e suddiviso in due porzioni da un muro. Intorno si dislocano cosucce, cascinette in rovina, fienili con le scalette esterne in pietra, case coloniche in parte ripristinate, qualche vicolo, resti di pavimentazione coprono l’ingresso che procede da una franata muraglia – che corre a nord fino alla torre – e si rintracciano anche nel primo vasto spazio fiancheggiato da un castagneto, come se vi esistesse un’aia comunitaria. I resti sono alzati in pietrame locale con sapienti archi di ingesso, rare finestrelle, soffitti piani di legno; vi sono percolati e panchette di sosta.
La cascina prospiciente l’orlo del recinto verso sud-ovest ha due bei archi gemini: sembrerebbe questa una costruzione a modo di torre che appare nella litografia del Deroy e che era nell’Ottocento una stalla della famiglia Dego. Non si rintracciano chiari elementi per individuare alloggiamenti militari, né palazzine di comando, di epoca spagnola, anche se con una certa probabilità l’edifico anzi indicato, oltre che quelli laterali alla torre, possono aver assunto un tempo funzioni ora non percepibili.
Se si tiene conto dell’estratto di mappa di quel tempo, si possono rilevare interventi successivi di ripristino o di ampliamento di qualche caseggiato, ancora integro e dalle modalità tipiche del tardo ottocento. [Borghi]
L'ORATORIO DISAN ROCCO SOPRA VILLATICO
1. Aspetti storici
L’oratorio di San Rocco sopra Villatico è una delle circa 30 chiese dedicate al santo erette sul territorio lariano dall’epoca medioevale fino al 1600 a dimostrazione della diffusione del culto a questo taumaturgo in epoche di frequenti e gravi epidemie che decimavano le popolazioni e i loro animali.
Dedicazione e posizione
La piccola chiesa sorge sulle pendici del Monte Legnone, in una zona leggermente pianeggiante e boscosa. La località sembra che non sia mai stata abitata in forma permanente. Però da qui passava e vi tuttora passa la riscoperta via di comunicazione denominata sentiero del viandante, uno dei percorsi che collegavano i paesi della sponda orientale del Lario prima della costruzione da parte degli austriaci della strada militare della riviera nella prima metà dell’ottocento. Si trova a una all’altezza di circa cinquecento metri, quasi a metà strada tra i due torrenti che attraversano il territorio di Colico e che sfociano nel Lario: il Perlino e l’Inganna.
Il tempietto era dedicato originariamente a san Sebastiano martire, un soldato convertito al cristianesimo all’epoca di Diocleziano e barbaramente ucciso come è mirabilmente illustrato nell’affresco sulla parete sinistra.
Dal secolo XVII al XIX le popolazioni funestate periodicamente da diverse epidemie, soprattutto in questi luoghi di passaggio tra le città della pianura padana e quelle della valle del Reno e dell’In, iniziarono a invocare non più il soldato romano san Sebastiano ma san Rocco, sentito più vicino a loro per il suo abito da pellegrino e la sua storia di guaritore attento ai bisogni della gente. Il santo era supplicato come difensore contro la peste, il colera, le malattie degli animali, la filossera e le calamità naturali. Per questi poteri taumaturgici, la sua devozione si estese rapidamente in tutta Italia e, in modo particolare, sulle nostre terre dove soppiantò il culto del soldato romano san Sebastiano. In momenti di transizione dal primo al nuovo patrono, i due santi venivano spesso rappresentati assieme, a fianco della Madonna come si nota nella sinopia della nostra chiesetta del secolo XVII.
Finalità dell’edificio
Possiamo ipotizzare che il luogo di culto, affrescato a più tappe dalla sua edificazione, sia stato costruito in seguito a voto al santo come ringraziamento per aver protetto la comunità o come pegno per proteggerla dal contagio della peste che periodicamente colpiva queste terre di passaggio delle soldatesche dal nord verso la pianura. Data la posizione del tempietto in mezzo ai boschi di castagni e anticamente di querce, non è inverosimile ritenere che al tempo degli antenati celti in questo posto sorgesse un luogo di culto delle loro divinità silvestri.
Storia dell’edificio
Per ora non sono stati recuperati scritti che documentino la data precisa della costruzione dell’oratorio, però la sua dedicazione al martire Sebastiano dei primi secoli e soprattutto l'impianto romanico dell’edificio, come evidenziato dalla bassa e ridotta abside semicircolare con una monofora fatta successivamente chiudere, sembrano farlo risalire al secolo XIV. Su questa piccola abside si innesta un’unica navata piuttosto spaziosa che, come si può desumere dalle sue dimensioni e dalla sua configurazione, è frutto di ampliamenti e di rimaneggiamenti iniziati già a partire dal secolo XV e proseguiti fino al XVII e conclusi solo una decina di anni fa. (2002)
La documentazione scritta sull’antica chiesa di san Sebastiano inizia solo dal 1582 con le indicazioni contenute negli Atti della visita pastorale del vescovo Antonio Volpi [ASDC, Visite pastorali Volpi]
“S’alzi l’altare maggiore almeno un palmo,
s’otturi il finestrello per il qual si può guardare sopra esso altare,
si levino gl’altari dei dodici apostoli et quello che è fuori della porta,
si levi il vaso di pietra che è presso il ceppo dell’elemosina,
il lavello dell’acqua benedetta si trasporti dentro la chiesa,
il cimitero si serri tra due mesi (...) sotto pena dell’interdetto”.
Il documento contiene alcuni errori in quanto la chiesa è posta in località “Fontanè” (Fontanedo). L’altare dei dodici apostoli a cui fa riferimento il vescovo evidentemente era collocato sotto l‘affresco dell’Ultima Cena, lungo la parete sinistra. Il finestrello è senz’altro la monofora chiusa posta nella parte bassa centrale dell’abside. Il cimitero menzionato era sicuramente un luogo di sepoltura delle vittime delle pesti di quel periodo ricavato sul sagrato del tempio.
Circa dieci anni dopo nel 1593 viene effettuata la visita del grande vescovo riformatore Feliciano Ninguarda, originario di Morbegno. Anche negli atti di questa visita si trova soltanto un succinto elenco delle chiese del territorio. Si fa menzione di una chiesa dedicata a san Sebastiano erroneamente collocata in “Fontanè” e quella di Santa Croce a La Corte, ove peraltro non è mai esistita alcuna chiesa.
[cfr. M. Fattarelli, La sepolta Olonio e la sua pieve alla sommità del lago di Como e in bassa Valtellina, Lecco 1986, pg. 584]
Visita Archinti 1598
È negli atti della visita pastorale di Filippo Archinti che, in data 27 giugno 1599, troviamo la prima, seppur sintetica descrizione della chiesa di San Sebastiano, che si riporta nella traduzione italiana recentemente pubblicata
“Chiesa di san Sebastiano, appartiene a san Bernardino di Colico. C’è un’antica cappella oscura in cui si trova l’altare. È consacrato. Mensa di marmo, ricoperta di tela, ma non cerata. Nessuna icona né pittura. La predella si può accettare. Manca tutto [l’arredo ndr]. Muri come cancelli (= le balaustre sono costruite da muri, ndr). Questa chiesa è rivolta a oriente; ha un’unica navata; non è consacrata. Copertura con soffitto, pareti in parte dipinte, in parte imbiancate. Pavimento in cotto. Facciata della chiesa dipinta; in essa c’è la porta maggiore. Nessuna acquasantiera; tre finestre senza impannate. Campanile con una campana”.
Il vescovo ordina quindi che “l’altar si orni di croce, et candellieri d’auricalco, di tovaglie necessarie, et tavolette per le secrete, et se li facci un’icona con qualche bel mistero”; e inoltre prescrive di collocare un’acquasantiera e di porre vetri o impannate alle finestre.
[cfr. F. Archinti, visita pastorale alla diocesi, ed. parziale in archivio storico della diocesi di Como, vol. 6, (1995) pg. 171]
Topografia di Colico
Gli atti di visita del vescovo Lazzaro Carafino, per quanto ci riguarda, contengono uno schizzo topografico del territorio di Colico, in cui sono evidenziate le strade, la parrocchiale di S. Bernardino, le quattro chiese dipendenti (San Fedele, San Giorgio, Santa. Croce e San Sebastiano) con la distanza dalla parrocchiale, il numero degli abitanti delle singole località con la disposizione delle case attorno alle chiese. Villatico (San Bernardino) conta 148 abitanti, La Corte (San Fedele) 95, San Giorgio (Colico piano) 55; Fontanedo (Santa Croce) 120; Curcio (senza chiesa) 12; nessun abitante presso la chiesa di San Sebastiano. Anzi la stessa chiesa è inserita nel bosco.
Nel secolo XIX venne edificato davanti alla facciata il profondo portico, tipo nartece delle chiese romaniche, non più per i catecumeni ma per proteggere i pellegrini nel caso di intemperie. Sostituì una tettoia come è documentato dalla visita dei ….
In quell’epoca venne sopraelevato l’armonico campanile decorato ad archetti pensili, merli e da un’alta guglia piramidale. L’esterno costituisce una struttura particolarmente articolata e sorprendente avvolta dal fascino della vegetazione circostante.
“1675 L’oratorio di San Sebastiano. La visita del sacerdote di Domaso don Pietro Martire Raimondo, inviato dal vescovo Torriani, è forse la prima alla chiesetta o oratorio allora chiamato di san Sebastiano. Il visitatore si sofferma infatti sui minimi particolari sia sull’ubicazione, sia nel descrivere la piccola costruzione e la povertà dei suoi arredi. Inoltre l’oratorio viene ancora denominato di San Sebastiano, sebbene si sia già diffusa la devozione a san Rocco, protettore degli appestati.
Il visitatore riferisce che l’oratorio sorge in località che il popolo (vulgo) chiama Guasto, in montibus colici, dove non abitano famiglie in permanenza, a circa mille passi dalla chiesa parrocchiale di san Bernardino. Ha un solo vano con un arco a metà a sostegno del tetto. È costruito in pietra e, in parte, risente della vetustà dei tempi. Il pavimento è in calcestruzzo ed è alquanto ineguale. Esiste un solo altare e non si sono suppellettili sacre se non un pallio, due tovaglie e le tavolette con le orazioni da leggere a bassa voce (le carteglorie). La chiesetta che ha sul davanti un fornice, e cioè una tettoria come riparo per i viandanti o per i pastori del luogo, non possiede ornamenti a eccezione di una icona della beata Vergine Maria con a lato san Sebastiano e San Rocco con cornice di legno. Non possiede beni immobili e si mantiene con le elemosine dei fedeli. Vi si celebra due volte all’anno, nelle feste dei due santi titolari, il 20 di gennaio e il 16 di agosto.
Il toponimo Guasto non è conservato a lungo e tanto meno tramandato ai posteri in quel di Colico, ma è il cognome di un proprietario residente a Gravedona, dove il toponimo è ancora conservato. Circa la distanza prospettata in mille passi tra la parrocchia e il montano oratorio è da pensare che il visitatore si sia servito di un sentiero, non certo del tracciato dell’attuale strada, che comporta una lunghezza assai maggiore”.
[da M. Fattarelli, Colico attraverso i secoli, 2003. pg. 163]
1777
Il 14 giugno 1777 un visitatore delegato dal vescovo Mugiasca redige un rapporto sulla parrocchia, di cui citiamo alcuni punti:
“Alla chiesa di San Bernardino appartengono quattro chiese filiali: San Fedele, San Giorgio, Santa Croce e San Sebastiano”
[Da M. Fattarelli, Colico attraverso i secoli, 2003, pg. 177]
1851
Don Graziano Porlezza, parroco di San Bernardino dal 28 giugno 1852, compila una relazione sulle chiesi filiali della sua parrocchia:
Dopo aver descritto a lungo la chiesa di San Giorgio in Colico piano, parla della chiesa di Santa Croce a Fontanedo e nomina “San Rocco al monte, con un solo altare. Si celebra per voto, con processione ogni venerdì di maggio, più la stazione di san Rocco”. [Da M. Fattarelli, Colico attraverso i secoli, 2003, pg. 200]
2. Guida – Scheda - per il visitatore (devoto)
a. Il portico
Il portico d’entrata di recente costruzione ricavato dall’allungamento della chiesa stessa, sostituì una precedente tettoia. Assieme alle due piccole finestrelle ad altezza di persona inginocchiata che consentono di origliare il sacro nell’oscurità quando la porta è chiusa ricorda al visitatore di oggi che lungo i secoli qui si sono fermati a riposare e a pregare moltitudini di viandanti che dai paesi della Valsassina, della Valvarrone, dai paesi della riviera e dalla pianura si recavano in Valtellina e nei paesi d’oltralpe. Ricorda soprattutto pastori, bimbi, donne e anziani che abitavano sui nostri monti e nelle valli vicine e qui chiedevano aiuto a Dio e ai santi. Riporta anche alla memoria i numerosi pellegrinaggi individuali e collettivi che da tutto il territorio salivano a pregare il santo, a festeggiare o a sciogliere un voto.
Possiamo anche ipotizzare che, come in tante altre parti, in passato sotto il portico o accanto al sacello ci sia stata una costruzione, magari modesta, di pietra o di legno, che serviva da ostello per i pellegrini che transitavano da sud verso nord e viceversa e in tempo di peste era utilizzata come alloggio per accogliere gli ammalati segregati per evitare il contagio. Sul sagrato esisteva pure un cimitero dove certamente erano sepolti i morti di peste e di epidemie.
Nella festa del santo la gente lungo i secoli si riuniva in processione prima nella chiesa per celebrare san Rocco poi fuori per un momento di festa e di condivisione fraterna, come d’altronde facevano i primi cristiani che si riunivano la sera in una casa a cenare assieme e alla fine spezzavano il pane dell’unità segno della presenza del Signore.
b. La vista all’interno
Entrando nel tempio si è subito colpiti dall’imponente nicchia posticcia di cemento elevata sopra l’altare con la statua del santo e la parete che la sovrasta con un profondo arco e che lascia intravedere l’antica abside affrescata. Su questa parete di sfondo si replica la figura del santo nell’affresco settecentesco. San Rocco nella gloria è circondato da nuvole e accompagnato da due angeli. Sopra l’arco altri due angeli con la tromba sembrano festeggiare l’entrata del santo taumaturgo in cielo.
Sia l’affresco che la statua lignea rappresentano il santo contraddistinto dai sui simboli iconografici: una gamba scoperta e piagata per indicare che fu anche lui colpito dalla peste e in seguito guarito, e quindi può proteggere i devoti prevenendoli dalla peste o sanandoli da essa, il bordone del viandante con appesa la zucca per contenere l’acqua, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio a Santiago di Compostela facendo riferimento alla sua vocazione di pellegrino e il cane fedele che lo saziava con una pagnotta quando ammalato si era ritirato in un bosco. Nella rappresentazione della gloria, il cane però non ha avuto accesso al paradiso.
Siamo quindi entrati in un tempio votivo che ci riporta ai secoli quando queste terre erano periodicamente minacciate da epidemie come le pesti e alle malarie nel cinquecento e nel seicento dovute sia all’ambiente acquitrinoso creato dall’Adda e dal Mera prima di immettersi nel Lario, sia ai frequenti passaggi degli eserciti del nord (ricordare il passaggio da queste terre dei Lanzichenecchi descritta dal Manzoni) e al colera e la spagnola degli ultimi due secoli.
c. L’affresco del martirio di san Sebastiano
Dopo questo prima immersione nel tempio con le evocazioni del passato, il visitatore si sofferma davanti allo splendido affresco cinquecentesco risalente al secolo XVI. Il pregevole dipinto rappresenta su una superficie di cm. 250 per cm 500 la scena del martirio di san Sebastiano colpito dagli arcieri dell’imperatore Diocleziano assiso su un trono davanti ad un vasto brano di paesaggio lacustre e montano.
Il santo si erge al centro della scena, nudo con il suo corpo atletico di soldato coperto dal solo perizoma. È legato con le braccia alzate alla colonna. Questa posizione gli consente di guardare negli occhi l’imperatore che lo ha condannato e assiste sorridente al supplizio e allo stesso tempo essere ammirato dai devoti. Nelle braccia e sul fianco destro sono già ben conficcate cinque frecce. Sopra di lui lo assistono due angeli rivestiti da morbide tuniche rigonfie con un lungo cartiglio. Alle spalle si apre un vasto paesaggio coronato da colli con castelli. Sembra che il frescante si sia voluto ispirare al paesaggio che si ammira da Posallo osservando l’immissione del Perlino nel laghetto di Piona.
A destra del santo ci sono due arcieri: uno seduto su un cippo sta inserendo la freccia nella balestra mentre l’altro in piedi con il cappello frigio sta scoccando la freccia da un arco. Ai loro piedi giace una faretra colma di frecce.
Alla sinistra del santo fanno da pendant altri due arcieri uno che sta caricando la balestra e l’altro con un svolazzante mantello a distanza molto ravvicinata sta prendendo la mira per scagliare la freccia proprio diretta al cuore del martire. Ai margini, quasi incollato alla cornice di destra di chi guarda, assiste al supplizio l’imperatore Diocleziano. Indossa un ampio mantello e porta un berretto frigio o forse uno simile al berretto dei dogi veneziani dell’epoca. L’ambiente è signorile come corrisponde ad una corte in presenza dell’imperatore che regge una canna di comando, che può essere uno scettro. Diocleziano è accompagnato da un capo militare che indossa un turbante orientale, una corazza e impugna una spada e da un consigliere avvolto in un mantello che tiene in mano con una pergamena arrotondata, probabilmente l’atto di condanna del martire che aveva trasgredito gli ordini dell’imperatore. Ai piedi del sovrano un simpatico cagnolino rivolge il muso allo spettatore.
Sulle cornici laterali adornate con motivi floreali tipici del Cinquecento, si possono ammirare i ritratti a mezzo busto della famiglia dei donatori dell’affresco: a destra di chi guarda in alto il marito e sotto la moglie, mentre a sinistra sono ritratti i due figli.
Non possono sfuggire all’attento osservatore i graffiti sulla cornice rossa inferiore. Uno di essi porta un’invocazione al santo: “Sancte Sebastiane liberanos a morbo et peste”. È una toccante testimonianza di un devoto anonimo del Cinquecento o del Seicento che si rivolge con fede la santo, prima che venisse sostituito da san Rocco nella sua funzione protettiva. Un altro graffito presenta una serie di cifre nove e un altro ancora riporta la firma di un “de Puteo” (Pozzi) cognome diffuso a Gravedona.
d. L’affresco dell’Ultima Cena.
Il visitatore prosegue verso l’altare e ammira, dopo una sbiadita sinopia e una monofora strombata chiusa, l’affresco di cm 250 per cm 600 raffigurante l'Ultima Cena, risalente al secolo XVI e rinvenuto nel corso di una campagna di restauro svoltasi negli ultimi anni.
La scena è dominata dalla figura centrale di Gesù che con una mano porge il boccone intinto nella salsa di erbe amare a Giuda e con l’altra accarezza amorevolmente sulla schiena Giovanni, il discepolo prediletto, accovacciato sul suo petto. L’autore vuole fermare l’immagine nel momento i cui Gesù ha appena annunciato che uno dei presenti lo avrebbe tradito e subito dopo indica a Giovanni chi sarà l’autore del tradimento con il gesto amichevole di offrire un boccone. Gli altri commensali pur rimanendo sgomenti continuano la cena: chi mesce il vino nel bicchiere, chi stacca un pezzo di carne dalla portata centrale con un coltello, chi lo porta alla bocca e chi sta per sorseggiare un calice di vino. È strano che Giuda unico seduto quasi di fronte a Gesù si sia inginocchiato ed abbia in testa l’aureola di santo. A meno l’autore abbia voluto interpretare alla lettera il vangelo che sottolinea che Satana entrò nel suo corpo subito dopo aver assaggiato il pezzo di pane offerto da Gesù e non prima. Pietro che aveva chiesto a Giovanni di farsi dire il nome del traditore da Gesù si trova alla destra e tiene qualcosa in mano, forse un coltello o un pezzo di carne.
La tavola è riccamente imbandita e decorata. In primo piano appare l’abbacchio servito in salse in una originale marmitta e accompagnato da erbe amare secondo il rito ebraico voluto dal Levitico. È in questa pentola che Gesù ha intinto il boccone che sta offrendo a Giuda che si è alzato dalla sua sedia e si è inginocchiato. Vi è anche un piatto di portata con nientemeno che un maialino lattonzolo. È certamente un elemento antistorico perché gli ebrei non mangiavano il maiale, ma gli abitanti di questo territorio e i devoti della Valvarrone che celebravano san Rocco sicuramente mangiavano maialino allo spiedo, o almeno costine e luganech. Oltre alle pagnotte, che sembrano più polentine (perché il pane da noi si mangiava poco) non mancano i bicchieri di vino rosso (pochi e piccoli, in verità) e perfino frutta di stagione, le ciliegie che crescevano sulle pendici del Legnone e del Legnoncino.
È possibile confrontare questa Cena, con quella coeva molto più famosa del celebre Leonardo. Entrambe vogliono rappresentare lo stesso momento drammatico di stupore e di sgomento degli apostoli. Nella cena di Leonardo tutti hanno smesso di mangiare e parlano divisi in gruppi di tre, mentre il nostro autore dà maggior vivacità alla scena mostrando i commensali stupiti con il gesto della mano alzata ma, allo stesso tempo ancora intenti a mangiare o a bere. Sul bordo della tovaglia erano scritti i nome degli apostoli: ora si può leggere con chiarezza quello di Matteo e le iniziali di Tommaso. Di fronte al capotavola di destra di chi guarda appare una figura femminile inginocchiata, probabilmente colei che ha finanziato l’affresco.
Da notare che siamo nel Cinquecento e il convivio è improntato a una dimensione fortemente collettiva, in tal senso bisognerà interpretare la pratica di utilizzare assieme le medesime posate (il coltello) le medesime coppe per bere e i medesimi taglieri su cui sono disposti le carni. La forchetta verrà introdotta sulle tavole italiane solo verso la seconda metà del sec. XVI. Di difficile interpretazione quei cinque oggetti posti a regolare distanza al centro tavola: saranno saliere, portauova o porta lumi?
e. La sinopia
Tra i due affreschi si intravede una sinopia di cm. 250 per 250 risalente al secolo XVII che raffigura i due santi San Rocco e San Sebastiano in piedi probabilmente a fianco della Vergine.
e. Gli affreschi dell’abside
Adesso il visitatore può oltrepassare il piccolo presbiterio per ammirare le pitture medioevali della calotta absidale. L’impianto di questi affreschi segue il tipico schema dell’epoca e sono dovuti a un ignoto, ma capace pittore che dovrebbe aver operato nei primi anni del XV secolo.
Mettendosi nel mezzo e guardando in alto, si ammira al centro la figura del Cristo Pantocrator all’interno dalla nella mandorla simbolo della sua divinità e circondato da tanti angioletti. La parte superiore dell’affresco con il volto del Cristo è stato molto rovinato quando venne innalzato la nicchia in cemento che contiene oggi la statua di san Rocco. Il Cristo benedicente regge un libro aperto sulle ginocchia in cui si possono leggere le parole “Ego sum lux mundi, veritas et vita” (Io sono la luce del mondo, la verità e la vita) ed è rivestito dal mantello rosso, simbolo della sua umanità che “nasconde” la veste azzurra, simbolo della sua divinità. Da notare i fermaglio in rilievo del mantello.
Il Cristo è circondato dai quattro evangelisti raffigurati nelle loro forme simboliche: figure umane dotati di grandi ali e sopra il capo il loro simbolo tradizionale. A fianco del Pantocrator alla sua sinistra in alto l’immagine dell’evangelista San Giovanni con le grandi ali verdi e sul capo il suo simbolo dell’aquila, regge un cartiglio con il suo nome. Sotto la figura umana con ali verdi di san Marco con il simbolo del leone sul capo. Al fianco destro del Cristo ci sono le figure in alto dell’evangelista Matteo con ali verdi e il simbolo dell’uomo sul capo e sotto la figura di Luca con ali rosse e il simbolo del bue/vitello sul capo. Questa forma di identificare gli evangelisti è alquanto singolare: normalmente troviamo soltanto il simbolo del tetramorfo o in rappresentazione più recenti l’immagine dell’evangelista con accanto il suo simbolo.
Ai lati stanno i profeti Geremia ed Isaia con il cartiglio del loro nome che hanno vaticinato la venuta del Messia sofferente che salva il suo popolo
Nella frangia inferiore partendo da sinistra vi è una scritta lacunosa che inizia con le parole hoc opus (questa opera), poi si può leggere il nome Martinus e dopo uno spazio la data MCCCI (1401)
f. Le figure votive di santi
In basso alla calotta lungo le pareti a sinistra dell’osservatore si trova la figura di sant’Antonio abate nativo dell’Egitto riconoscibile con la sua croce a tau (senza la parte superiore) e con il libro delle scrittura con il quale vince le tentazioni.
Al suo fianco la figura di san Sebastiano con un volto femmineo a riconoscibile per le frecce nel suo corpo.
Dall’altra parte dell’abside si vedono la figure di due sante: Agnese che regge un libro e la svedese santa Brigida che tiene nella mano una lunga penna forse un riferimento alle regole che scrisse per l’ordine religiose o al libro da lei scritto che contiene le sue rivelazioni ricevute da Gesù
Alcuni autori attribuiscono le pitture trecentesche a dei pittori che nella medesima epoca operava a Gravedona nella chiesa di santa Maria del tiglio mentre i due grandi affreschi si avvicinano all’arte raffinata dei fratelli Scotti, famosi pittori dell’età sforzesca, dei quali rimane un importante brano affrescato nella chiesa di Sorico, sulla sponda opposta, chiesa matrice di questo lembo di terra della diocesi di Como, ed erede della plebana di Olonio, sepolta dalle piene dell’Adda nel secolo XV.
L’oratorio di San Rocco sopra Villatico è una delle circa 30 chiese dedicate al santo erette sul territorio lariano dall’epoca medioevale fino al 1600 a dimostrazione della diffusione del culto a questo taumaturgo in epoche di frequenti e gravi epidemie che decimavano le popolazioni e i loro animali.
Dedicazione e posizione
La piccola chiesa sorge sulle pendici del Monte Legnone, in una zona leggermente pianeggiante e boscosa. La località sembra che non sia mai stata abitata in forma permanente. Però da qui passava e vi tuttora passa la riscoperta via di comunicazione denominata sentiero del viandante, uno dei percorsi che collegavano i paesi della sponda orientale del Lario prima della costruzione da parte degli austriaci della strada militare della riviera nella prima metà dell’ottocento. Si trova a una all’altezza di circa cinquecento metri, quasi a metà strada tra i due torrenti che attraversano il territorio di Colico e che sfociano nel Lario: il Perlino e l’Inganna.
Il tempietto era dedicato originariamente a san Sebastiano martire, un soldato convertito al cristianesimo all’epoca di Diocleziano e barbaramente ucciso come è mirabilmente illustrato nell’affresco sulla parete sinistra.
Dal secolo XVII al XIX le popolazioni funestate periodicamente da diverse epidemie, soprattutto in questi luoghi di passaggio tra le città della pianura padana e quelle della valle del Reno e dell’In, iniziarono a invocare non più il soldato romano san Sebastiano ma san Rocco, sentito più vicino a loro per il suo abito da pellegrino e la sua storia di guaritore attento ai bisogni della gente. Il santo era supplicato come difensore contro la peste, il colera, le malattie degli animali, la filossera e le calamità naturali. Per questi poteri taumaturgici, la sua devozione si estese rapidamente in tutta Italia e, in modo particolare, sulle nostre terre dove soppiantò il culto del soldato romano san Sebastiano. In momenti di transizione dal primo al nuovo patrono, i due santi venivano spesso rappresentati assieme, a fianco della Madonna come si nota nella sinopia della nostra chiesetta del secolo XVII.
Finalità dell’edificio
Possiamo ipotizzare che il luogo di culto, affrescato a più tappe dalla sua edificazione, sia stato costruito in seguito a voto al santo come ringraziamento per aver protetto la comunità o come pegno per proteggerla dal contagio della peste che periodicamente colpiva queste terre di passaggio delle soldatesche dal nord verso la pianura. Data la posizione del tempietto in mezzo ai boschi di castagni e anticamente di querce, non è inverosimile ritenere che al tempo degli antenati celti in questo posto sorgesse un luogo di culto delle loro divinità silvestri.
Storia dell’edificio
Per ora non sono stati recuperati scritti che documentino la data precisa della costruzione dell’oratorio, però la sua dedicazione al martire Sebastiano dei primi secoli e soprattutto l'impianto romanico dell’edificio, come evidenziato dalla bassa e ridotta abside semicircolare con una monofora fatta successivamente chiudere, sembrano farlo risalire al secolo XIV. Su questa piccola abside si innesta un’unica navata piuttosto spaziosa che, come si può desumere dalle sue dimensioni e dalla sua configurazione, è frutto di ampliamenti e di rimaneggiamenti iniziati già a partire dal secolo XV e proseguiti fino al XVII e conclusi solo una decina di anni fa. (2002)
La documentazione scritta sull’antica chiesa di san Sebastiano inizia solo dal 1582 con le indicazioni contenute negli Atti della visita pastorale del vescovo Antonio Volpi [ASDC, Visite pastorali Volpi]
“S’alzi l’altare maggiore almeno un palmo,
s’otturi il finestrello per il qual si può guardare sopra esso altare,
si levino gl’altari dei dodici apostoli et quello che è fuori della porta,
si levi il vaso di pietra che è presso il ceppo dell’elemosina,
il lavello dell’acqua benedetta si trasporti dentro la chiesa,
il cimitero si serri tra due mesi (...) sotto pena dell’interdetto”.
Il documento contiene alcuni errori in quanto la chiesa è posta in località “Fontanè” (Fontanedo). L’altare dei dodici apostoli a cui fa riferimento il vescovo evidentemente era collocato sotto l‘affresco dell’Ultima Cena, lungo la parete sinistra. Il finestrello è senz’altro la monofora chiusa posta nella parte bassa centrale dell’abside. Il cimitero menzionato era sicuramente un luogo di sepoltura delle vittime delle pesti di quel periodo ricavato sul sagrato del tempio.
Circa dieci anni dopo nel 1593 viene effettuata la visita del grande vescovo riformatore Feliciano Ninguarda, originario di Morbegno. Anche negli atti di questa visita si trova soltanto un succinto elenco delle chiese del territorio. Si fa menzione di una chiesa dedicata a san Sebastiano erroneamente collocata in “Fontanè” e quella di Santa Croce a La Corte, ove peraltro non è mai esistita alcuna chiesa.
[cfr. M. Fattarelli, La sepolta Olonio e la sua pieve alla sommità del lago di Como e in bassa Valtellina, Lecco 1986, pg. 584]
Visita Archinti 1598
È negli atti della visita pastorale di Filippo Archinti che, in data 27 giugno 1599, troviamo la prima, seppur sintetica descrizione della chiesa di San Sebastiano, che si riporta nella traduzione italiana recentemente pubblicata
“Chiesa di san Sebastiano, appartiene a san Bernardino di Colico. C’è un’antica cappella oscura in cui si trova l’altare. È consacrato. Mensa di marmo, ricoperta di tela, ma non cerata. Nessuna icona né pittura. La predella si può accettare. Manca tutto [l’arredo ndr]. Muri come cancelli (= le balaustre sono costruite da muri, ndr). Questa chiesa è rivolta a oriente; ha un’unica navata; non è consacrata. Copertura con soffitto, pareti in parte dipinte, in parte imbiancate. Pavimento in cotto. Facciata della chiesa dipinta; in essa c’è la porta maggiore. Nessuna acquasantiera; tre finestre senza impannate. Campanile con una campana”.
Il vescovo ordina quindi che “l’altar si orni di croce, et candellieri d’auricalco, di tovaglie necessarie, et tavolette per le secrete, et se li facci un’icona con qualche bel mistero”; e inoltre prescrive di collocare un’acquasantiera e di porre vetri o impannate alle finestre.
[cfr. F. Archinti, visita pastorale alla diocesi, ed. parziale in archivio storico della diocesi di Como, vol. 6, (1995) pg. 171]
Topografia di Colico
Gli atti di visita del vescovo Lazzaro Carafino, per quanto ci riguarda, contengono uno schizzo topografico del territorio di Colico, in cui sono evidenziate le strade, la parrocchiale di S. Bernardino, le quattro chiese dipendenti (San Fedele, San Giorgio, Santa. Croce e San Sebastiano) con la distanza dalla parrocchiale, il numero degli abitanti delle singole località con la disposizione delle case attorno alle chiese. Villatico (San Bernardino) conta 148 abitanti, La Corte (San Fedele) 95, San Giorgio (Colico piano) 55; Fontanedo (Santa Croce) 120; Curcio (senza chiesa) 12; nessun abitante presso la chiesa di San Sebastiano. Anzi la stessa chiesa è inserita nel bosco.
Nel secolo XIX venne edificato davanti alla facciata il profondo portico, tipo nartece delle chiese romaniche, non più per i catecumeni ma per proteggere i pellegrini nel caso di intemperie. Sostituì una tettoia come è documentato dalla visita dei ….
In quell’epoca venne sopraelevato l’armonico campanile decorato ad archetti pensili, merli e da un’alta guglia piramidale. L’esterno costituisce una struttura particolarmente articolata e sorprendente avvolta dal fascino della vegetazione circostante.
“1675 L’oratorio di San Sebastiano. La visita del sacerdote di Domaso don Pietro Martire Raimondo, inviato dal vescovo Torriani, è forse la prima alla chiesetta o oratorio allora chiamato di san Sebastiano. Il visitatore si sofferma infatti sui minimi particolari sia sull’ubicazione, sia nel descrivere la piccola costruzione e la povertà dei suoi arredi. Inoltre l’oratorio viene ancora denominato di San Sebastiano, sebbene si sia già diffusa la devozione a san Rocco, protettore degli appestati.
Il visitatore riferisce che l’oratorio sorge in località che il popolo (vulgo) chiama Guasto, in montibus colici, dove non abitano famiglie in permanenza, a circa mille passi dalla chiesa parrocchiale di san Bernardino. Ha un solo vano con un arco a metà a sostegno del tetto. È costruito in pietra e, in parte, risente della vetustà dei tempi. Il pavimento è in calcestruzzo ed è alquanto ineguale. Esiste un solo altare e non si sono suppellettili sacre se non un pallio, due tovaglie e le tavolette con le orazioni da leggere a bassa voce (le carteglorie). La chiesetta che ha sul davanti un fornice, e cioè una tettoria come riparo per i viandanti o per i pastori del luogo, non possiede ornamenti a eccezione di una icona della beata Vergine Maria con a lato san Sebastiano e San Rocco con cornice di legno. Non possiede beni immobili e si mantiene con le elemosine dei fedeli. Vi si celebra due volte all’anno, nelle feste dei due santi titolari, il 20 di gennaio e il 16 di agosto.
Il toponimo Guasto non è conservato a lungo e tanto meno tramandato ai posteri in quel di Colico, ma è il cognome di un proprietario residente a Gravedona, dove il toponimo è ancora conservato. Circa la distanza prospettata in mille passi tra la parrocchia e il montano oratorio è da pensare che il visitatore si sia servito di un sentiero, non certo del tracciato dell’attuale strada, che comporta una lunghezza assai maggiore”.
[da M. Fattarelli, Colico attraverso i secoli, 2003. pg. 163]
1777
Il 14 giugno 1777 un visitatore delegato dal vescovo Mugiasca redige un rapporto sulla parrocchia, di cui citiamo alcuni punti:
“Alla chiesa di San Bernardino appartengono quattro chiese filiali: San Fedele, San Giorgio, Santa Croce e San Sebastiano”
[Da M. Fattarelli, Colico attraverso i secoli, 2003, pg. 177]
1851
Don Graziano Porlezza, parroco di San Bernardino dal 28 giugno 1852, compila una relazione sulle chiesi filiali della sua parrocchia:
Dopo aver descritto a lungo la chiesa di San Giorgio in Colico piano, parla della chiesa di Santa Croce a Fontanedo e nomina “San Rocco al monte, con un solo altare. Si celebra per voto, con processione ogni venerdì di maggio, più la stazione di san Rocco”. [Da M. Fattarelli, Colico attraverso i secoli, 2003, pg. 200]
2. Guida – Scheda - per il visitatore (devoto)
a. Il portico
Il portico d’entrata di recente costruzione ricavato dall’allungamento della chiesa stessa, sostituì una precedente tettoia. Assieme alle due piccole finestrelle ad altezza di persona inginocchiata che consentono di origliare il sacro nell’oscurità quando la porta è chiusa ricorda al visitatore di oggi che lungo i secoli qui si sono fermati a riposare e a pregare moltitudini di viandanti che dai paesi della Valsassina, della Valvarrone, dai paesi della riviera e dalla pianura si recavano in Valtellina e nei paesi d’oltralpe. Ricorda soprattutto pastori, bimbi, donne e anziani che abitavano sui nostri monti e nelle valli vicine e qui chiedevano aiuto a Dio e ai santi. Riporta anche alla memoria i numerosi pellegrinaggi individuali e collettivi che da tutto il territorio salivano a pregare il santo, a festeggiare o a sciogliere un voto.
Possiamo anche ipotizzare che, come in tante altre parti, in passato sotto il portico o accanto al sacello ci sia stata una costruzione, magari modesta, di pietra o di legno, che serviva da ostello per i pellegrini che transitavano da sud verso nord e viceversa e in tempo di peste era utilizzata come alloggio per accogliere gli ammalati segregati per evitare il contagio. Sul sagrato esisteva pure un cimitero dove certamente erano sepolti i morti di peste e di epidemie.
Nella festa del santo la gente lungo i secoli si riuniva in processione prima nella chiesa per celebrare san Rocco poi fuori per un momento di festa e di condivisione fraterna, come d’altronde facevano i primi cristiani che si riunivano la sera in una casa a cenare assieme e alla fine spezzavano il pane dell’unità segno della presenza del Signore.
b. La vista all’interno
Entrando nel tempio si è subito colpiti dall’imponente nicchia posticcia di cemento elevata sopra l’altare con la statua del santo e la parete che la sovrasta con un profondo arco e che lascia intravedere l’antica abside affrescata. Su questa parete di sfondo si replica la figura del santo nell’affresco settecentesco. San Rocco nella gloria è circondato da nuvole e accompagnato da due angeli. Sopra l’arco altri due angeli con la tromba sembrano festeggiare l’entrata del santo taumaturgo in cielo.
Sia l’affresco che la statua lignea rappresentano il santo contraddistinto dai sui simboli iconografici: una gamba scoperta e piagata per indicare che fu anche lui colpito dalla peste e in seguito guarito, e quindi può proteggere i devoti prevenendoli dalla peste o sanandoli da essa, il bordone del viandante con appesa la zucca per contenere l’acqua, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio a Santiago di Compostela facendo riferimento alla sua vocazione di pellegrino e il cane fedele che lo saziava con una pagnotta quando ammalato si era ritirato in un bosco. Nella rappresentazione della gloria, il cane però non ha avuto accesso al paradiso.
Siamo quindi entrati in un tempio votivo che ci riporta ai secoli quando queste terre erano periodicamente minacciate da epidemie come le pesti e alle malarie nel cinquecento e nel seicento dovute sia all’ambiente acquitrinoso creato dall’Adda e dal Mera prima di immettersi nel Lario, sia ai frequenti passaggi degli eserciti del nord (ricordare il passaggio da queste terre dei Lanzichenecchi descritta dal Manzoni) e al colera e la spagnola degli ultimi due secoli.
c. L’affresco del martirio di san Sebastiano
Dopo questo prima immersione nel tempio con le evocazioni del passato, il visitatore si sofferma davanti allo splendido affresco cinquecentesco risalente al secolo XVI. Il pregevole dipinto rappresenta su una superficie di cm. 250 per cm 500 la scena del martirio di san Sebastiano colpito dagli arcieri dell’imperatore Diocleziano assiso su un trono davanti ad un vasto brano di paesaggio lacustre e montano.
Il santo si erge al centro della scena, nudo con il suo corpo atletico di soldato coperto dal solo perizoma. È legato con le braccia alzate alla colonna. Questa posizione gli consente di guardare negli occhi l’imperatore che lo ha condannato e assiste sorridente al supplizio e allo stesso tempo essere ammirato dai devoti. Nelle braccia e sul fianco destro sono già ben conficcate cinque frecce. Sopra di lui lo assistono due angeli rivestiti da morbide tuniche rigonfie con un lungo cartiglio. Alle spalle si apre un vasto paesaggio coronato da colli con castelli. Sembra che il frescante si sia voluto ispirare al paesaggio che si ammira da Posallo osservando l’immissione del Perlino nel laghetto di Piona.
A destra del santo ci sono due arcieri: uno seduto su un cippo sta inserendo la freccia nella balestra mentre l’altro in piedi con il cappello frigio sta scoccando la freccia da un arco. Ai loro piedi giace una faretra colma di frecce.
Alla sinistra del santo fanno da pendant altri due arcieri uno che sta caricando la balestra e l’altro con un svolazzante mantello a distanza molto ravvicinata sta prendendo la mira per scagliare la freccia proprio diretta al cuore del martire. Ai margini, quasi incollato alla cornice di destra di chi guarda, assiste al supplizio l’imperatore Diocleziano. Indossa un ampio mantello e porta un berretto frigio o forse uno simile al berretto dei dogi veneziani dell’epoca. L’ambiente è signorile come corrisponde ad una corte in presenza dell’imperatore che regge una canna di comando, che può essere uno scettro. Diocleziano è accompagnato da un capo militare che indossa un turbante orientale, una corazza e impugna una spada e da un consigliere avvolto in un mantello che tiene in mano con una pergamena arrotondata, probabilmente l’atto di condanna del martire che aveva trasgredito gli ordini dell’imperatore. Ai piedi del sovrano un simpatico cagnolino rivolge il muso allo spettatore.
Sulle cornici laterali adornate con motivi floreali tipici del Cinquecento, si possono ammirare i ritratti a mezzo busto della famiglia dei donatori dell’affresco: a destra di chi guarda in alto il marito e sotto la moglie, mentre a sinistra sono ritratti i due figli.
Non possono sfuggire all’attento osservatore i graffiti sulla cornice rossa inferiore. Uno di essi porta un’invocazione al santo: “Sancte Sebastiane liberanos a morbo et peste”. È una toccante testimonianza di un devoto anonimo del Cinquecento o del Seicento che si rivolge con fede la santo, prima che venisse sostituito da san Rocco nella sua funzione protettiva. Un altro graffito presenta una serie di cifre nove e un altro ancora riporta la firma di un “de Puteo” (Pozzi) cognome diffuso a Gravedona.
d. L’affresco dell’Ultima Cena.
Il visitatore prosegue verso l’altare e ammira, dopo una sbiadita sinopia e una monofora strombata chiusa, l’affresco di cm 250 per cm 600 raffigurante l'Ultima Cena, risalente al secolo XVI e rinvenuto nel corso di una campagna di restauro svoltasi negli ultimi anni.
La scena è dominata dalla figura centrale di Gesù che con una mano porge il boccone intinto nella salsa di erbe amare a Giuda e con l’altra accarezza amorevolmente sulla schiena Giovanni, il discepolo prediletto, accovacciato sul suo petto. L’autore vuole fermare l’immagine nel momento i cui Gesù ha appena annunciato che uno dei presenti lo avrebbe tradito e subito dopo indica a Giovanni chi sarà l’autore del tradimento con il gesto amichevole di offrire un boccone. Gli altri commensali pur rimanendo sgomenti continuano la cena: chi mesce il vino nel bicchiere, chi stacca un pezzo di carne dalla portata centrale con un coltello, chi lo porta alla bocca e chi sta per sorseggiare un calice di vino. È strano che Giuda unico seduto quasi di fronte a Gesù si sia inginocchiato ed abbia in testa l’aureola di santo. A meno l’autore abbia voluto interpretare alla lettera il vangelo che sottolinea che Satana entrò nel suo corpo subito dopo aver assaggiato il pezzo di pane offerto da Gesù e non prima. Pietro che aveva chiesto a Giovanni di farsi dire il nome del traditore da Gesù si trova alla destra e tiene qualcosa in mano, forse un coltello o un pezzo di carne.
La tavola è riccamente imbandita e decorata. In primo piano appare l’abbacchio servito in salse in una originale marmitta e accompagnato da erbe amare secondo il rito ebraico voluto dal Levitico. È in questa pentola che Gesù ha intinto il boccone che sta offrendo a Giuda che si è alzato dalla sua sedia e si è inginocchiato. Vi è anche un piatto di portata con nientemeno che un maialino lattonzolo. È certamente un elemento antistorico perché gli ebrei non mangiavano il maiale, ma gli abitanti di questo territorio e i devoti della Valvarrone che celebravano san Rocco sicuramente mangiavano maialino allo spiedo, o almeno costine e luganech. Oltre alle pagnotte, che sembrano più polentine (perché il pane da noi si mangiava poco) non mancano i bicchieri di vino rosso (pochi e piccoli, in verità) e perfino frutta di stagione, le ciliegie che crescevano sulle pendici del Legnone e del Legnoncino.
È possibile confrontare questa Cena, con quella coeva molto più famosa del celebre Leonardo. Entrambe vogliono rappresentare lo stesso momento drammatico di stupore e di sgomento degli apostoli. Nella cena di Leonardo tutti hanno smesso di mangiare e parlano divisi in gruppi di tre, mentre il nostro autore dà maggior vivacità alla scena mostrando i commensali stupiti con il gesto della mano alzata ma, allo stesso tempo ancora intenti a mangiare o a bere. Sul bordo della tovaglia erano scritti i nome degli apostoli: ora si può leggere con chiarezza quello di Matteo e le iniziali di Tommaso. Di fronte al capotavola di destra di chi guarda appare una figura femminile inginocchiata, probabilmente colei che ha finanziato l’affresco.
Da notare che siamo nel Cinquecento e il convivio è improntato a una dimensione fortemente collettiva, in tal senso bisognerà interpretare la pratica di utilizzare assieme le medesime posate (il coltello) le medesime coppe per bere e i medesimi taglieri su cui sono disposti le carni. La forchetta verrà introdotta sulle tavole italiane solo verso la seconda metà del sec. XVI. Di difficile interpretazione quei cinque oggetti posti a regolare distanza al centro tavola: saranno saliere, portauova o porta lumi?
e. La sinopia
Tra i due affreschi si intravede una sinopia di cm. 250 per 250 risalente al secolo XVII che raffigura i due santi San Rocco e San Sebastiano in piedi probabilmente a fianco della Vergine.
e. Gli affreschi dell’abside
Adesso il visitatore può oltrepassare il piccolo presbiterio per ammirare le pitture medioevali della calotta absidale. L’impianto di questi affreschi segue il tipico schema dell’epoca e sono dovuti a un ignoto, ma capace pittore che dovrebbe aver operato nei primi anni del XV secolo.
Mettendosi nel mezzo e guardando in alto, si ammira al centro la figura del Cristo Pantocrator all’interno dalla nella mandorla simbolo della sua divinità e circondato da tanti angioletti. La parte superiore dell’affresco con il volto del Cristo è stato molto rovinato quando venne innalzato la nicchia in cemento che contiene oggi la statua di san Rocco. Il Cristo benedicente regge un libro aperto sulle ginocchia in cui si possono leggere le parole “Ego sum lux mundi, veritas et vita” (Io sono la luce del mondo, la verità e la vita) ed è rivestito dal mantello rosso, simbolo della sua umanità che “nasconde” la veste azzurra, simbolo della sua divinità. Da notare i fermaglio in rilievo del mantello.
Il Cristo è circondato dai quattro evangelisti raffigurati nelle loro forme simboliche: figure umane dotati di grandi ali e sopra il capo il loro simbolo tradizionale. A fianco del Pantocrator alla sua sinistra in alto l’immagine dell’evangelista San Giovanni con le grandi ali verdi e sul capo il suo simbolo dell’aquila, regge un cartiglio con il suo nome. Sotto la figura umana con ali verdi di san Marco con il simbolo del leone sul capo. Al fianco destro del Cristo ci sono le figure in alto dell’evangelista Matteo con ali verdi e il simbolo dell’uomo sul capo e sotto la figura di Luca con ali rosse e il simbolo del bue/vitello sul capo. Questa forma di identificare gli evangelisti è alquanto singolare: normalmente troviamo soltanto il simbolo del tetramorfo o in rappresentazione più recenti l’immagine dell’evangelista con accanto il suo simbolo.
Ai lati stanno i profeti Geremia ed Isaia con il cartiglio del loro nome che hanno vaticinato la venuta del Messia sofferente che salva il suo popolo
Nella frangia inferiore partendo da sinistra vi è una scritta lacunosa che inizia con le parole hoc opus (questa opera), poi si può leggere il nome Martinus e dopo uno spazio la data MCCCI (1401)
f. Le figure votive di santi
In basso alla calotta lungo le pareti a sinistra dell’osservatore si trova la figura di sant’Antonio abate nativo dell’Egitto riconoscibile con la sua croce a tau (senza la parte superiore) e con il libro delle scrittura con il quale vince le tentazioni.
Al suo fianco la figura di san Sebastiano con un volto femmineo a riconoscibile per le frecce nel suo corpo.
Dall’altra parte dell’abside si vedono la figure di due sante: Agnese che regge un libro e la svedese santa Brigida che tiene nella mano una lunga penna forse un riferimento alle regole che scrisse per l’ordine religiose o al libro da lei scritto che contiene le sue rivelazioni ricevute da Gesù
Alcuni autori attribuiscono le pitture trecentesche a dei pittori che nella medesima epoca operava a Gravedona nella chiesa di santa Maria del tiglio mentre i due grandi affreschi si avvicinano all’arte raffinata dei fratelli Scotti, famosi pittori dell’età sforzesca, dei quali rimane un importante brano affrescato nella chiesa di Sorico, sulla sponda opposta, chiesa matrice di questo lembo di terra della diocesi di Como, ed erede della plebana di Olonio, sepolta dalle piene dell’Adda nel secolo XV.
CHIESA DI SAN BERNARDINO
Alla fine del sec. XIII esisteva di sicuro a Villatico un piccolo tempio, perché le testimonianze affermano che a quell’antica comunità era assicurato un servizio religioso. Solo verso la fine del XV sec. la chiesa fu dedicata a S. Bernardino, un predicatore senese che attraversò a piedi l’Italia predicando la riforma religiosa, la giustizia sociale e operando a favore della pace tra le città allora in conflitto. Si recò anche in Valtellina e per questo toccò il suolo di Villatico.
L’edificio, lungo i secoli costituì il centro della vita religiosa e sociale della locale comunità contadina. La sua antichità appare dall’impianto architettonico basilicale. L’aula a tre navate è suddivisa da semplici colonne in muratura ordinaria con cinque campate ad arcate a tutto sesto, con volte a botte per quella centrale e a crociera per quelle laterali. L’altare maggiore è caratterizzato da sinuose linee settecentesche in marmo nero di Varenna intarsiato da altri marmi policromi. Le pareti del presbiterio, dell’abside e dei due archi trionfali che presentano un apparato decorativo di autore ignoto, si rifanno allo stile barocco e sono tutti realizzati con la tecnica dell’affresco a trompe d’oeil. Sulle pareti sono raffigurati l’episodio biblico del sogno della scala di Giacobbe e la sua lotta con l’Angelo; sulla volta a botte la Gloria di S. Bernardino tra molteplici elementi decorativi. Sulle pareti del catino absidale S. Bernardino è affiancato probabilmente da S. Elena e S. Margherita. L’arco trionfale realizzato dopo l’allungamento verso ovest della navata centrale mostra un affresco raffigurante Cristo in gloria, attribuito al Tagliaferri.
L’edificio, lungo i secoli costituì il centro della vita religiosa e sociale della locale comunità contadina. La sua antichità appare dall’impianto architettonico basilicale. L’aula a tre navate è suddivisa da semplici colonne in muratura ordinaria con cinque campate ad arcate a tutto sesto, con volte a botte per quella centrale e a crociera per quelle laterali. L’altare maggiore è caratterizzato da sinuose linee settecentesche in marmo nero di Varenna intarsiato da altri marmi policromi. Le pareti del presbiterio, dell’abside e dei due archi trionfali che presentano un apparato decorativo di autore ignoto, si rifanno allo stile barocco e sono tutti realizzati con la tecnica dell’affresco a trompe d’oeil. Sulle pareti sono raffigurati l’episodio biblico del sogno della scala di Giacobbe e la sua lotta con l’Angelo; sulla volta a botte la Gloria di S. Bernardino tra molteplici elementi decorativi. Sulle pareti del catino absidale S. Bernardino è affiancato probabilmente da S. Elena e S. Margherita. L’arco trionfale realizzato dopo l’allungamento verso ovest della navata centrale mostra un affresco raffigurante Cristo in gloria, attribuito al Tagliaferri.
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